“Riflessi e riflessioni” di Fabio Vacchi
 

Se c’è una cosa che mi accomuna ad Amos Oz, amico e collaboratore, da sempre, è la naturale insofferenza – caratteriale quanto culturale – verso i dogmi, le certezze, le barriere, le verità assolute. Ingredienti che si trovano ben distribuiti tanto nelle aree di commercializzazione dello spettacolo quanto nelle torri adamantine delle élite intellettuali.

Refrattario all’algida e mortifera concettualizzazione riconducibile in parte alle teorie del filosofo tedesco Theodor Adorno che hanno dominato il mondo compositivo novecentesco, attratto dalle sperimentazioni delle avanguardie ma intollerante ai loro cascami dottrinari e pedanti, e ancor più alla loro saccente produzione di brutture mascherate da pretese filosofiche spesso banali, interessato alla cultura hip hop con l’occhio di chi ne sta fuori e la guarda stupito e attratto, amo l’ evocazione, il confronto, il sogno, il dialogo, l’attrazione, perfino il sospetto che si scioglie in curiosità, tra generi diversi. Come tra culture, religioni, modi di pensare, tradizioni, morali. Quando si misurano senza pregiudizi ma anche senza con-fusioni. Perché l’ incontro postula e pretende la diversità, non cerca di annullarla. L’identico a se stesso è la sola e vera morte. Come l’autoreferenzialità. Per gli individui, le società, le arti.

Se ho deciso di continuare a comporre è perché credo nella musica colta. Credo nella sapienza del suo patrimonio, che è riuscito a scorrere nelle vene popolari grazie alla capacità dei grandi del passato di coniugare somma dottrina e umile sforzo di arrivare agli altri.

Per questo non potrei mai sottomettere a una facile comunicazione, a una superficiale empatia emotiva con l’ascoltatore, la tecnica, la maestria, la perizia, la scienza e la conoscenza di un filone cui appartengo e nel quale voglio saldamente restare. Credo, perché lo tocco con mano, che la musica colta d’oggi rimanga una dimensione viva, universale, intergenerazionale, resistente alle logiche strumentali del mercato. Quindi, niente scorciatoie, niente passatismi, niente occhieggiamenti.

Questi paletti etici ed estetici per me inviolabili – tra cui svettano coerenza, rigore, unitarietà stilistica, e che pongo come obiettivo primario sia quando scrivo, sia quando insegno – devono, non possono, devono proprio, aprirsi, ammorbidirsi, rendersi friabili, cangianti. In altra parole, permeabili alla varietà dell’essere nel mondo.

L’idea d’inserire un cantastorie è nata dal mio interesse per il rap, rafforzato, o forse scatenato, dalla lettura di analisi straordinarie del fenomeno, come quelle del grande sociologo, filosofo, etnologo Georges Lapassade[1] o di David Toop[2]. Cui sono seguite indagini davvero chiarificatrici da parte di studiosi provenienti da diversi ambiti, non di rado accomunate dall’intento di documentare il comune ceppo antropologico del recitar cantando, che ha dato origine alla lirica antica, al melodramma, al rap.

Per chiudere il cerchio di questo sguardo meravigliato sull’ hip-hop, metabolizzato ed evocato attraverso il filtro del mio stile – da sempre innervato di musica etnica – ho pensato di affidare a un importante writer, Marco Tarascio, in arte Moby Dick, la realizzazione live di una regia virtuale resa performante. La scoperta del suo lavoro, la fascinazione per le sue scelte e i suoi soggetti, a partire da un tema a me così caro e profondamente insito nel messaggio dell’opera come l’animalismo, hanno fatto scattare la scintilla.  

Tra i tanti testi rivelatori di musicologi, etnomusicologi e storici dell’arte, penso ad esempio alle esplorazioni di Alessandro Riva,[3] sono invece incappato anche in disquisizioni superficiali sulla street art. Non mancano coloro che pontificano, dai soliti palchi estremi, sull’arena della società. La loro distanza dalla complessità del reale li accomuna. Da un lato c’è chi la considera vandalismo tout court.

Sono di solito gli stessi che predicano la necessità di punire, respingere, chiudere a chi dalla strada viene, o da paesi bombardati, o dalla fame. Dall’altro c’è anche chi ritiene che, per avere dignità, l’arte dei murali debba rimanere impertinente, selvaggia, devastatrice. Non credo sia azzardato paragonare queste posizioni a quelle di chi protegge un’avanguardia fine a se stessa, concettuale, potente e altezzosa oppure butta a mare ogni ricerca, ogni novità, ogni sperimentazione.

Il vero cambiamento si ottiene integrando, riflettendo, desiderando, sperimentando. Assorbendo i valori che si sedimentano collettivamente, nella vita di ogni giorno come nelle arti figurative, nella scienza, nella letteratura, nel cinema. La street art s’è imbevuta delle sfide nate nelle strade da parte degli afroamericani, immettendole nel patrimonio della pittura italiana.

E’ quanto fanno le amministrazioni illuminate in tanti Paesi, dando spazio fisico e mentale a chi voglia esprimersi senza danneggiare muri e fatiche altrui. Ed ecco metropolitane, pareti, edifici, teatri, affidati ai writer, che spesso hanno vivificato e animato quartieri centrali o periferici. In sintonia con la gente.

Un no, quindi, alla trasgressione compiaciuta, tanto simile, in fondo, alla conservazione museale. Nell’estetica come nella politica, è solo da un confronto che può nascere un incontro. Ora che continuamente s’inneggia all’esclusione in nome della difesa, abbiamo cercato di non sentirci emarginati, ridicoli, effeminati perché non virilmente eroi, nel proporre valori costruttivi anziché distruttivi.

Il mondo degli adolescenti non è né il committente né il destinatario del mio Specchio magico. Padre di tre teenager, ho semplicemente attinto spesso al loro sentire, mentre scrivevo, per rivolgermi al pubblico, al mio solito pubblico, nel quale ci sono età tenere e mature. Convinto che ci si debba sempre e comunque tentare, di superare le barriere demagogiche erette strumentalmente anche fra generazioni. Non dimentichiamo che dopo le armi, è il consumismo indotto nei giovani e nei giovanissimi (di oggetti, fumo, alcol e droghe) a sostenere la più alta concentrazione di profitto e di criminalità organizzata. Che spesso sfrutta ignominiosamente proprio la manodopera minorile.

Ho invece pensato ai tanti ragazzi che fanno volontariato negli ospedali o nei canili, che si ergono a tutela dell’ambiente, che escono dalle nostre vecchie logiche per insegnarci con semplicità la cosa più difficile e rivoluzionaria: l’amore.

[1] G. Lapassade, Ph. Rousselot, Le rap ou la fureur de dire, Paris, Loris Talmart, 1996; Rap, il furor del dire, traduzione italiana, Lecce, Bepress, 2009.

[2]D. Toop, Storia di una musica nera, Torino, EDT, 1992.

[3] A. Riva, Street Art, Sweet Art, Milano, Skira, 2007.