Irini, Esselam, Shalom, per voce, violino concertante e orchestra. Intervista di Filippo Poletti ed Ettore Napoli in occasione della prima esecuzione, all’Auditorium di Milano, con testi e voce di Moni Ovadia e Pavel Vernikov al violino. 16 settembre 2004.

“Occhio per occhio – ripeteva Gandhi – e il mondo diventa cieco”. Sono queste le prime parole che vengono in mente leggendo il titolo del brano per voce, violino concertante e orchestra Irini, Esselam, Shalom di Fabio Vacchi. L’opera, il cui titolo significa “pace” nelle lingue greca, araba ed ebraica, «non vuole essere solo un ricordo – precisa l’autore che ha preso spunto da una selezione di testi curati da Moni Ovadia – ma soprattutto una riflessione su quanto è avvenuto dal giorno della tragedia a oggi. Lo sdegno non è solo quello per gli avvenimenti dell’11 settembre 2001, bensì include quanto è successo negli anni a seguire.

“La poesia – ha scritto Neruda – è un atto di pace”. E la musica?
Lo è, solo se si attiene a quanto le compete. Mi spiego. Negli anni Settanta e Ottanta, come ho più volte dichiarato, mi rifiutavo di scrivere pezzi “politici”, poiché allora l’impegno copriva spesso (ci sono eccezioni, alcune delle quali mirabili, ma restano tali) povertà di linguaggio. Ancora oggi molti dei circuiti organizzativi della musica contemporanea sono gestiti da persone che usano una terminologia guerresca e militante applicata al campo musicale (a proposito, consiglio di leggere l’illuminante paragrafo sull’infantilismo dell’avanguardia artistica nel saggio Immaturità di Cataluccio, edito da Einaudi). Il pubblico non contava quasi niente.

Moni Ovadia

Pavel Verinokov

La maestria (per la genialità lasciamo ai posteri l’ardua sentenza) men che meno. Bisognava appartenere alla élite dell’avanguardia ammessa, quella che imponeva i programmi ai pochi centri destinati alla diffusione musicale, altrimenti eri spacciato. Io ce l’ho fatta perché ho tenuto duro e perché, per generazione, ho potuto affermarmi quando le grandi correnti del potere musicale (quelle dell’avanguardia e dei neoromantici) sono crollate, almeno nel loro granitico e intransigente dogmatismo.

Perché ora, invece, scrive pezzi di impegno etico o politico?
Perché non vanno più di moda e perché ho capito, dopo quegli anni di polemica, che non potevo rinunciare ai miei ideali solo perché venivano strumentalizzati. In questo mi sono stati amici e maestri grandi personaggi, da Nono – che mi sostenne generosamente quando ero ragazzo – a Berio, del quale sento una struggente, acuta mancanza e al quale dobbiamo se l’avanguardia ha riconquistato la comunicazione. Dunque, come è sempre stato, la musica si fa veicolo di valori e quindi di pace, solo ed esclusivamente se riesce a servirli con la ricchezza del proprio specifico, asemantico, pensiero.

Com’è strutturato il brano?
La forma è apparentemente rapsodica, in realtà è bipartita.: nella prima parte si sviluppa un dialogo tra la voce recitante e il violino, il quale –ma questo in realtà l’ho pensato dopo aver scritto il brano- svolge il ruolo di “portatore” di inquietudine, di interrogazione, rispetto al carattere icastico dei versi, che contengono verità apparentemente indiscutibili. Pavel Vernikov ha constatato l’assenza di una bella melodia, in senso tradizionale, per il suo strumento. E’ vero, il violino, che ha una scrittura molto difficile, virtuosistica, è in una posizione dialettica rispetto alla voce recitante, vero fulcro narrativo al quale spetta l’affabulazione, mentre la parte strumentale solistica è tutta movimento, inquietudine. E poi c’è l’orchestra, che non fa solo da sfondo, ma interviene elaborando i materiali esposti dal violino e insieme si muovono come in un girotondo attorno alla voce recitante, il perno attorno al quale tutto ruota.

Questo accade nella prima parte. E nella seconda?
«La seconda parte, quasi una coda, ha molta importanza. Moni Ovadia canterà una canzone tratta dai canti liturgici ebraici intitolata Avinu Malkeinu, che significa “credo in Dio, mio Signore, mio Re”. È un canto che mi ha colpito per il tono struggente, straziante. L’esecuzione della canzone richiede portamenti, glissandi, ritardandi, intervalli particolari , respiri espressivi, acciaccature insolite, colpi di glottide, tutti effetti che si possono trasferire, certo, in un contesto colto, rivitalizzandoli e reinterpretandoli, ma mantenendone anche la natura originaria. E ciò è molto più facile se si usa una voce duttile, non impostata. Il canto di Ovadia si inserisce nel contrappunto isoritmico dell’orchestra, il che gli conferisce un carattere visionario. E’ la prima volta che applico in modo così sistematico l’isoritmia , quella, per intenderci, dei maestri del XV secolo.