“Il Sestetto di Vacchi, terza via nella musica contemporanea”  di Paolo Gallarati – La Stampa, 15 dicembre 2000

Due motivi di soddisfazione, l’altra sera. Nel concerto proposto al Conservatorio dall’Unione Musicale. Il primo era offerto dalla creazione del “Wanderer Sextett” per archi di Fabio Vacchi; il secondo dalla consonanza con i Solisti dalla Mahler Chembrer Orchestra, apprezzatissimo complesso da camera formato e diretto da Claudio Abbado.

Il Sestetto di Vacchi sembra una delle cose più felici uscita dalla penna di questo compsitore che intende perseguire una terza via nella pratica della musica contemporanea: non avanguardia dura e pura aspra e difficile, ma nemmeno o facili ripiegamenti del neoromanticismo postmoderno, con melodia apertamente tonali e orecchiabilità latente. Vacchi usa un linguaggio che suona modernissimo e lo piaga a una forte volontà di comunicazione: i suoi pezzi sono diretti, si ascoltano senza mediazioni e piacciono subito, come s’è visto l’altra sera, dal successo che ha salutato la prima assoluta del Wanderer Sextett, terminata tra applausi prolungati.

Il titolo fa pensare, naturalmente, a Schubert: ma Vacchi non intende porgere un omaggio alla figura del viandante romantico, per lui “Wabderer” è un archetipo antropologico, rappresenta una dimensione contestuale dell’esistenza, è umo stato d’animo annidato dentro di noi, che rinasce di generazione in generazione.

Qui c’è un ambiente, una atmosfera, e ci sono degli eventi: l’atmosfera è la polverizzazione del suono operata dai sei archi, come una bruma diffusa, un alone misterioso: notturno: ombre, nebbie, vapori, L’effetto perdura a lungo, anzi del pezzo fornisce il colorito generale dentro cui scoccano eventi diversi: melodie che appaiono e suggeriscono come se fossero scritte sull’acqua o sulla sabbia, flussi e riflussi tempestosi, pizzicati duri come frustate, effetti legnosi ottenuti con diversi modi di attacco del suono. I tremoli, le figurazioni seghettate e scattanti, le corse improvvise di note velocissime, persino un valzer, tutto passa e sfuma, dando l’impressione , appunto, di un vagabondaggio, tra ombre, ricordi, apparizioni labili e inquieta.

Alla suggestione del pezzo ha certo contribuito la precisione e il pathos immersovi dai sei solisti, Antonella Manacorda e Markus Durnert, violini, Verena Wehling e Jorg Winkler, viole, Konstnitn Pfiz e Kunt Weber, violoncelli: sei solisti di primissimo ordine, dotati di uno slancio che dinnanzi a Mozart (Quintetto K, 515)né apparso velato di comprensibile prudenza, ma che in CiaicovsKij (Sestetto “Souvenir da Folrence” è stato davvero trascinante , e anche pieno di estri e commozione. Vacchi era molto contento e ha diviso gli applausi con gli esecutori che, fuori programma, hanno eseguito nientemeno che il Sestetto dell’Opera Capriccio di Strauss pagina di straordinaria bellezza, annidata tra i fogli a matita di una partitura che viene aperta troppo di rado.