Musica e regia oggi – Fabio Vacchi 

Difficile sintetizzare il problema del rapporto, oggi, tra musica e regia, nell’ambito del teatro e del cinema. Sono stato interpellato per raccontare la mia esperienza personale, e così farò, cercando di trarne peraltro riflessioni di carattere più generale. Intanto, ritengo che per me siano state importantissime le collaborazioni con registi e attori-registi del cinema, come Ermanno Olmi, Patrice Chereau, Toni Servillo, poiché mi hanno permesso uno sguardo allargato sul rapporto gesto-suono-immagine: la musica non era più completamente autonoma o comunque fulcro del processo artistico, come avviene nell’opera.

Al contrario, i registi hanno usato le mie partiture (già esistenti o scritte appositamente in base alle loro esigenze) per i loro obiettivi specifici. Il che, a dispetto di quanto un certo moralismo dogmatico ha talvolta teorizzato, non sminuisce affatto la forza espressiva della musica. Anzi, costringe il compositore (almeno per me così è stato) a indagare con maggiore umiltà le reali possibilità comunicative del mestiere, affinando ulteriormente l’aspetto, per me tutt’altro che trascurabile, della sapienza tecnica, dell’artigianato, della capacità di piegare la materia e gli stessi confini della propria estetica, a un risultato altro.

E il confronto è divenuto quindi, per me, non solo intrinseco alla sfera musicale (con la tradizione colta occidentale, con le tecniche d’avanguardia, con altri generi, con le culture extraeuropee), ma anche estrinseco, volto cioè alla mediazione con il diverso da sé. Il che, da un punto di vista filosofico ed etico, ma potrei tranquillamente dire anche politico, è per me, oggi, imprescindibile. Lo stesso vale per quanto concerne altre forme musicali rappresentative, come il melologo, che indirettamente si plasma sul talento di attori, registi, e attori-registi.

Così è stato con Ferdinando Bruni in Prospero o dell’armonia diretto da Riccardo Chailly in Scala, con Peter Simonischek nei panni del narratore nella Giusta armonia diretta da Riccardo Muti a Salisburgo, ma anche quando Toni Servillo è stato attore-regista dei Canti di Benjaminovo su testi di Franco Maorcaldi e Moni Ovadia attore-cantore in Irini, Esselam, Shalom. Devo ricordare altre esperienze positive in tal senso: con l’attrice Giovanna Bozzolo nell’operina radiofonica La burla universale, sempre su testo di Marcoaldi, oppure con Federica Fracassi e Annina Pedrini in Mi chiamo Roberta e in Persefone, su testi di Aldo Nove – laddove mi sono confrontato anche con la forza evocativa delle sculture di Arnaldo Pomodoro. In questi contesti, la musica, come già teorizzava Mozart, che avrebbe desiderato scrivere melologhi ma non gli venivano richiesti, deve mettersi in relazione col senso e col suono della parola.

Quindi, inevitabilmente, ne deriva un’implicita regia, che viene però affidata esclusivamente al modo in cui l’attore o gli attori interpretano ciò che la musica usa della trama letteraria. E’ ovviamente la forma musicale a dettare le regole di questa regia, proprio all’opposto di quanto avviene nel cinema. Altra situazione in cui l’incontro-scontro tra musica e altro avviene in uno stadio intermedio di reciproca indipendenza e convergenza, è l’installazione. In questo caso – ad esempio quando una mostra di Giulio Paolini a S. Cecilia, a Roma, è stata concepita in relazione all’ascolto simultaneo di mie musiche – deve esistere, a priori, un terreno comune, un’empatia estetica, ma anche tecnica. Lo stesso dicasi per il documentario su Jannis Kounellis girato da Ermanno Olmi, nel quale la “risonanza interiore” coinvolgeva quattro dimensioni: lo spazio di Arnaldo Pomodoro (nella sua Fondazione), le sculture di Kounellis, la regia di Olmi, la partitura. Ancora, mi è capitato di “prestare” la mia musica per eventi culturali, come una regia televisiva per Rai Due sul restauro della Leggenda della vera Croce di Piero della Francesca. Anche in una circostanza come questa, che apparentemente richiede alla musica un grado di incidenza minima, in realtà, sei costretto a esplorare nei dettagli la tua produzione, scandagliandola in modo tale da scoprirne entità primarie, fondanti, dalle quali possono scaturire nuove forme: lì per lì, funzionali al prodotto televisivo, ma in effetti rivelatrici di inedite potenzialità costruttive.

E arrivo così a parlare del teatro musicale propriamente detto, nel quale, almeno io, personalmente, e finora, mi sono sentito in relazione piuttosto stretta e paritaria con la regia. La quale, però, nelle opere che ho composto finora, mi giungeva a sua volta filtrata e in qualche modo “deviata” dalle esigenze del libretto. Le implicazioni tra intenti musicali, registici, scenografici e testuali dà vita a una texture complessa, che ogni volta, nel momento dell’allestimento, sfugge almeno in parte alla mia determinazione. Il che, se da un lato mi disorienta, dall’altro mi costringe a una rimessa in gioco di quanto sembrava scritto in modo definito, scatenando un feed back di interazioni che spesso esula dalla composizione della singola opera, rifrangendosi sugli altri brani cui sto lavorando e addirittura sul destino delle opere successive.

Forse era proprio questo che intendeva Wagner. Solo che oggi la rivoluzione tecnologica, modificando sostanzialmente sia le tecniche di stampa, riproduzione e diffusione delle musiche sia lo spettacolo dal vivo, con un evidente accrescimento del grado di interdisciplinarietà linguistica, ha portato al formarsi di una platea più vasta e diversificata rispetto al passato. Se il pubblico della musica contemporanea è infatti ancora elitario, è pur vero che, essendo sempre più socialmente differenziato – grazie ovviamente anche ad internet – si sta ponendo come filtro di eterogenee e complesse stratificazioni interculturali ed estetiche. Si tratta infatti di una platea varia, interraziale, interculturale, intergenerazionale.

Ed ecco perché ritengo utile, in questo momento storico, continuare a mantenere in vita il teatro d’opera. Pur innervandolo di nuove esperienze, pur ravvivandolo attraverso ricerche linguistiche che sfruttino i risultati ottenuti tanto dalla tradizione quanto dalle avanguardie, entrambi ormai storicizzati, il teatro musicale deve fare i conti con le proprie radici e lottare per mantenere la sua specificità contro i facili ipnotismi di una comunicazione superficiale. E per fare questo deve porsi in relazione con la regia, in un rapporto creativo ed egualitario. Ed è quanto ho tentato di fare, nell’ambito dell’opera vera e propria, con Myriam Tanant (La station thérmale, rappresentata a Lione, Parigi e alla Scala), Daniele Abbado (che ha ripreso, dopo Lione, a Bologna, Les oiseaux de passage), Giorgio Barberio Corsetti (Il letto della storia, Maggio Fiorentino), Denis Kriev (La madre del mostro, Siena) Ermanno Olmi e, su un piano scenografico che si è fatto altamente strutturale, anche Arnaldo Pomodoro (Teneke, alla Scala di Milano).

Da tutto ciò che ho detto in questo brevissimo excursus sulla mia produzione musicale, che ha implicato, in modi diversi, la regia, credo si deduca un principio generale, per me fondante anche sul piano estetico: non è mai il materiale, il modo, l’approccio, a legittimare un risultato artistico, ma la sua qualità. Non potrei dunque dire se preferisco una regia astratta o descrittiva, con un’ambientazione tradizionale o modernizzata, che utilizzi l’essenziale o che sfrutti tecnologie varie, anche video. E’ un falso problema. Ho visto regie di un tipo e dell’altro, convincenti o astruse. Dipende dal rigore, dalla coerenza, dalla consapevolezza, dalla sensibilità, dalla sapienza con cui testo e partitura vengono affrontati. Penso che si debba uscire definitivamente da questo equivoco che ha per tanti anni condizionato il risultato del teatro musicale, attraverso la ricerca continua di un dinamico punto d’incontro e di equilibrio tra arti, concezioni, posizioni estetiche differenti, con uno sguardo rivolto a ciò che avviene nelle altre discipline, ma anche fuori dalla tradizione colta occidentale.