È GIUNTO IL TEMPO DI FABIO VACCHI

di Jean-Jacques Nattiez

Difficile non situare nella storia della musica una nuova opera di Fabio Vacchi, cinque mesi dopo la scomparsa di Pierre Boulez (nato nel 1925), uno dei giganti della modernità e l’ultimo a lasciarci della prestigiosa schiera che ha trasformato il paesaggio musicale moderno: György Ligeti (1923-2007), Luciano Berio (1925-2003), Karlheinz Stockhausen (1928-2007), Henri Pousseur (1929-2009). In molti l’hanno fatto notare: la morte di Boulez segna la fine di un’epoca, si gira pagina. Ma per lasciare il posto a quali nuovi capitoli?

Vacchi nasce nel 1949, quando Boulez ha appena scritto le sue prime opere: le Notations pour piano (1945) e e la sua Première sonate pour piano entrambe del 1946. Egli fa parte di una nuova generazione che si confronterà, negli anni della sua formazione, con il radicalismo di una avanguardia che ha i suoi fondamenti nel ricorso sistematico e talvolta esacerbato alla scala di dodici suoni di Schönberg, Berg e Webern, e con una militanza politica non meno radicale 1, basata sulla ideologia di Marx e di Lenin, che si propone di promuovere il proletariato come classe universale e, quindi, di instaurare una società senza classi.

Inoltre, per capire l’orientamento estetico delle opere attuali di Vacchi, non è inutile ricordare ciò che caratterizzava le musiche dell’avanguardia di ieri. Queste facevano proprie un postulato semiologico radicale: l’essenza della musica risiede nella sua forma. Ciò aveva una triplice conseguenza: il gioco delle strutture era considerato come più importante rispetto alla dimensione espressiva ed emotiva della musica della quale ci si sforzava persino di negare l’esistenza; il progetto compositivo consisteva essenzialmente nel calcolo combinatorio che era all’ origine dell’opera; la forma e la dimensione immanente erano più importanti della sua percezione. Come l’Uomo, con la U maiuscola, secondo Marcuse, l’opera era a una dimensione ed era chiaro, per i seguaci di questo orientamento, che questa rientrava nell’ordine della verità, che si manifestava sotto le forme di un proselitismo messianico secondo cui si sarebbe imposta presto come IL paradigma musicale universale.

Questa pratica era motivata, sul piano estetico, da una ricerca esacerbata della purezza che si accompagnava ad un atteggiamento per così dire morale: così come per l’espressione dei sentimenti, il piacere che si poteva provare nell’ascoltare musica era oggetto di scherno e l’edonismo era considerato come categoria sospetta. C’era qualcosa di puritano nell’avanguardia musicale del dopo guerra, una dimensione che mi sembra presente anche nell’ideologia politica e, oggi, nel pensiero religioso, quando ciò che c’è di più umano nell’Uomo è negato in nome del futuro della evoluzione artistica, della costituzione prossima di una società egualitaria e dell’obbedienza alla volontà divina. L’affermazione di verità uniche nell’ambito estetico, politico e religioso si manifesta sotto aspetti simili – dogmatismo, fondamentalismo, integralismo – che si basano sullo stesso principio: ieri come oggi, le realtà empiriche sono negate in nome di principi trascendenti considerati come verità immutabili.

Ma il destino di ogni pensiero e di ogni atteggiamento riduttivo è quello di essere poco a poco resi obsoleti dall’evidenza delle realtà empiriche: ciò che è scacciato dalla porta ritorna dalla finestra. Verrà forse il giorno in cui le distruzioni operate dagli integralismi religiosi di cui oggi subiamo le sanguinose conseguenze, segneranno anch’esse il passo, anche se ci vorrà molto tempo per questo, perché la trascendenza religiosa ha più presa sugli animi dei dogmatismi delle dittature politiche. Il crollo delle società comuniste totalitarie è già avvenuto, e il ripristino dell’economia di mercato è già acquisito in Cina; e sta per realizzarsi a Cuba. Negli anni Ottanta, l’avanguardia musicale del dopo guerra cominciò a mostrare segni di stanchezza, a seguito di una sempre maggiore disaffezione del pubblico. E che si vide riemergere, anche nei compositori che incarnavano l’avanguardia? Al di là della purezza puntillistica della musica, il senso della linearità coerente del discorso musicale: questo è il senso delle opere di Berio dette Sequenze o Chemins, in opposizione a Kontra-Punkte (Stockhausen), Structures o Éclat (Boulez). Oltre il formalismo, la rivalorizzazione dell’espressione: si è addirittura parlato di “ritorno del represso”. Al di là dell’immanenza, una nuova attenzione alle possibilità percettive degli ascoltatori, e poco a poco, l’idea che si compone non in funzione di un ipotetico futuro estetico-politico, ma per l’ascoltatore di qui e ora.

E credo che la scommessa sia vinta. Come spiegare, altrimenti, che il 5 luglio 2014, quando l’Orchestre de Paris ha eseguito Dai calanchi di Sabbiuno di Vacchi in omaggio a Patrice Chéreau, il pubblico del Festival di Aix-en-Provence abbia tributato un’ovazione incondizionata all’opera del compositore?

È avendo presente questo contesto che, a mio avviso, si può comprendere l’orientamento estetico di Fabio Vacchi. Ascolto le sue composizioni sinfoniche: ci sento un uomo che, cresciuto nel serraglio del serialismo imperante degli anni 1950 e 1960, ha perso le illusioni incantatrici e volontaristiche del periodo modernista, ma che ha saputo integrarne le esperienze, in particolare per quanto riguarda la finezza e la sottigliezza della scrittura; che ha, sembra, altresì ereditato da Mahler, Ravel e Berg un senso raffinato dell’orchestrazione, e ciò non è sempre vero per alcuni compositori del dopo guerra, più attenti alle strutture che alle sonorità cangianti, troppo presto rifiutate come edonistiche. Ritorno regressivo? Chi si lamenterà del persistere dell’espressionismo? Bisogna proprio dirlo: le opere di Vacchi sono belle, spesso cupe e tormentate, mai noiose.

Vacchi rivendica il principio di piacere. Anche quando pratica una scrittura complessa, come è spesso il caso – si pensi ai suoi splendidi Quartetti per archi, le sue opere si riallacciano a quelle che mi sembrano essere le due dimensioni fondamentali della musica, direi anzi, l’essenza stessa della musica: la linearità e l’uso di punti di riferimento. A tal punto che mi domando spesso come mai queste caratteristiche siano state dimenticate o osteggiate. Non è un caso se i compositori della modernità imperante hanno o mancato l’incontro con le opere drammatiche e liriche (Ligeti, Berio) oppure non sono riusciti a comporre un’opera come, invece, avevano promesso con insistenza (Boulez). Non è il caso di Vacchi, il quale, al contrario, si trova particolarmente a suo agio nella composizione di opere vocali. Gli dobbiamo nove opere. E se fossero le sue opere liriche a fare da modello a quelle puramente strumentali? Un ritorno a un giusto stato di cose, se si pensa che il 90%, forse più, delle musiche in tutte le culture del mondo sono musiche vocali.

Per Vacchi, la parola principale è il concetto di narrazione musicale. Non si tratta, quindi, nelle sue opere orchestrali o nella musica da camera, di imitare i procedimenti retorici dei discorsi letterari e linguistici. E non direi che Vacchi ci faccia sentire dei “racconti” musicali, perché, la musica in sé stessa, anche quando si tratta di un poema sinfonico, non racconta mai una storia3, ma può suscitare in noi dei modi di ascolto narrativi, secondo quanto dice François Delalande4,quelle che facevano dire ad Adorno, a proposito di Mahler, che le sue sinfonie sono “dei romanzi che non raccontano niente”. In ogni opera di Vacchi, ogni momento preciso, ogni lasso di tempo omogeneo, ogni proposizione elaborata ne fa prevedere uno o un’altra, perché la risposta data si impone come una necessità dopo ciò che è si è sentito o, altrimenti, perché lo sviluppo sonoro, giocando con le nostre aspettative, ha saputo sorprenderci e aprire il seguito dello sviluppo musicale verso nuove direzioni. Anche se fossimo incapaci di ricordare lo sviluppo melodico delle opere di Vacchi, come si può fare per le arie di Puccini, esse cantano con un modo tutto loro particolare di parlarci.

Da assiduo ascoltatore delle musiche della tradizione orale, il compositore ha potuto osservare che la maggior parte delle musiche del mondo, comprese anche quelle non tonali, sono strutturate intorno a note polari che organizzano la direzione del discorso musicale e permettono all’ascoltatore di seguirne la progressione. Per Vacchi, l’opera musicale non è solo un gioco di strutture astratte, ma, senza per questo abbandonare il rigore della scrittura, è anche un progetto destinato a toccare gli ascoltatori nel più profondo di loro stessi. Con l’eloquenza della sua sintassi decisamente affettiva, ma anche perché Vacchi è attento ai problemi sociopolitici nei quali cui è implicato l’uomo, come si può capire nelle opere Dai Calanchi di Sabbiuno (1995), Diario dello Sdegno (2002), Voci di Notte (2006) e Teneke (2007).

Fabio Vacchi è un compositore di oggi perché crede, in campo musicale ma anche in altri ambiti – in letteratura, cinema, pittura – nelle possibilità di una “comunicazione creativa”, una espressione che gli è cara, per poco che se ne senta l’esigenza e che ci si diano i mezzi per volerla. Ma nel medesimo tempo è un tenace nemico di ogni concessione alle ricette del passato, a ciò che è facile e scontato. Questo non significa che volti le spalle a realizzazioni di altre culture o di altri generi, anzi. In Terra Comune (2002), ha fatto sentire l’integrazione di diversi stili musicali, ha mescolato melodie popolari siciliane con ritmi e suoni di ispirazione africana, ma il tutto con uno stile che è solo suo. È ciò che fece in Mare che fiumi accoglie (2007), quando si ispirò a musiche arabe ed ebraiche, mescolandole con strutture venute dal Centro Africa, ma questo à la manière de… Vacchi. E non è per venire incontro al gusto odierno che introduce un “rap” nell’opera creata per il 7 maggio 2016 al Maggio Fiorentino. Scrivendo quest’opera per i giovani e gli adolescenti, vuole deliberatamente alludere a un genere che è loro familiare e facilitare la comprensione del pubblico, ma è anche per darci la sua versione, il Rapgesang, e dimostrare che il compositore contemporaneo può trovare la sua linfa nei modelli di espressione musicale che si collocano al di là del solo campo delle musiche cosiddette serie. Vacchi ci dice, quindi, che   il compositore di oggi ha il diritto di ispirarsi a altre musiche, ma non di imitarle pedissequamente, perché si tratta, ogni volta, di inventare. Questo è un altro motivo del piacere che si ha ascoltando Vacchi, perché ci dà l’occasione di scoprire (e ammirare) il suo modo originale di trasformare delle pratiche musicali che conosciamo. Non ho dubbi che l’ascolto de Lo specchio magico sarà anch’esso un’occasione di scoperte.

È vero, e ne sono testimonianza tutte le sue composizioni che ho ascoltato: Vacchi si preoccupa della unità stilistica delle sue opere. Certi compositori della modernità, e non tra i meno importanti come Boulez, avevano pensato di riuscirci proponendo un linguaggio costantemente rinnovato, sbarazzato da ogni allusione stilistica, culturale o storica. Bisognava, altresì, non perdere i propri ascoltatori e, sensibile al problema, Boulez ha trovato la sua soluzione, al di là dei principi teorici espliciti, in quei due capolavori che sono Répons e Sur Incises. Ma era possibile, sulla base di una filiazione storica distinta, quella che riallaccia Vacchi a Berg e ai compositori del XIX secolo in quello che hanno di migliore, ricercare questa unità attraverso altri mezzi. Questa ricerca dell’unità, che mi sembra essere uno dei tratti significativi dell’estetica di Vacchi, non è un obiettivo proprio dei protagonisti della modernità. È facilmente dimostrabile che questa ricerca, di fatto, è una preoccupazione estetica costante dal tempo dei platonici e dei neo-platonici, che si ritrova nell’estetica contemporanea 5. Facendo poggiare insieme macro e micro strutture sul ciclo delle quinte, la musica tonale ne aveva fatto il suo principio fondamentale. Ed è questa stessa relazione organica, come testimonia Vacchi in Mare che fiumi accoglie, che preoccupa nelle loro opere e produzioni musicali tanto un Johann Sebastian Bach che un Boulez oppure un suonatore di tamburello dell’Uganda. A ciò va aggiunga la ricerca delle compatibilità fra vari stili musicali – Bach aveva fatto qualcosa di diverso combinando stile tedesco, stile italiano e stile francese? – e si ha la chiave di ciò che, in questo periodo di dubbio e di eclettismo stilistico, certamente necessario dal punto di vista della democrazia, ma non sempre riuscito sul piano estetico per mancanza di rigore e spirito critico, potrebbe indicare una direzione di atteggiamento per i compositori di questo inizio di secolo. Ciò che costituisce il valore dell’estetica di Vacchi, è la sua capacità di raggiungerci alla fine di infaticabili ricerche, fuse in un linguaggio che gli è proprio ma che restano sempre perfettamente comprensibili da tutti e da tutte.

È giunto il tempo di oggi. È giunto il tempo di Fabio Vacchi.

 

NOTE

  1. Eccetto Ligeti, che si è rifugiato in Europa occidentale dopo la mancata rivoluzione in Ungheria nel 1956.
  2. Per altre considerazioni su queste analogie fra musica e politica, cfr. Jean-Jacques Nattiez, Il combattimento di Crono e Orfeo, Einaudi, Torino, 2004, cap. I.
  3. Cfr. Jean-Jacques Nattiez, “Racconto letterario e ‘racconto’ musicale. A proposito di un’illusione omologica”, in La narratologia musicale. Applicazioni e prospettive, a cura di Angela Carone, Torino, Trauben, 2006, pp. 227-284.
  4. François Delalande, Le condotte musicali, Cluev, Bologna, 1993.
  5. Cfr. Jean Molino-Jean-Jacques Nattiez, “Tipologi e universali”, in Jean-Jacques Nattiez e altri (a cura di), Enciclopedia della Musica, vol. VII, “La globalizzazione musicale”, 2007, Einaudi, Torino e Il Sole 24 Ore, Milano, pp. 331-366. Su questo punto, cfr. pp. 354-359.