Opere di Ravel, Cerha, Vacchi e Martin Grubinger come solista nel Grande Concerto diretto da Chailly

P.Korfmacher, Leipziger Volkszeitung, 14 May 2011 (traduzione italiana dal tedesco)

Opere di Ravel, Cerha, Vacchi e Martin Grubinger quale solista nel Grande Concerto sotto la direzione di Chailly

Con due opere del XX e due opere del XXI secolo l’esultanza non finiva mai nel Grande Concerto diretto da Riccardo Chailly giovedì sera. In programma: Il Concerto per percussioni di Friedrich Cerha con il favoloso Martin Grubinger quale solista, la prima esecuzione della versione originale del “Diario dello sdegno” di Fabio Vacchi e come cornice “Une barque sur l’ocean” e il “Bolero” di Ravel.

Martin Grubinger continua dove la tradizione dei virtuosi del XIX secolo si era fermata. Quanto c’è di differente tra la sua arte magica della percussione e ciò che faceva Paganini sul suo violino? O Franz Liszt sul pianoforte? E in che cosa differisce il Concerto per percussioni e orchestra di Friedrich Cerha dal 3° concerto per pianoforte e orchestra di Rachmaninoff? In entrambi i casi è un incontro del meglio dei due mondi: la vertiginosa tecnica di Grubinger con l’attitudine di Cerha di spingere al limite del fattibile; la indomabile volontà di espressione del compositore austriaco, nato nel 1926, con la capacità dell’eccezionale musicista ventottenne di Salisburgo di caricare di significato anche quei passaggi che, al primo sguardo, sembrano soprattutto acrobatici.

Gewandhaus – Lipsia

E ce ne sono in questo concerto (composto nel 2007/2008) che sembra scritto da Cerha per Grubinger. Soprattutto nei tempi esterni: nella prima parte, dove dominano i tamburi e nell’amara Danse macabre del finale, dove il legno della marimba dà il tono. In mezzo Cerha stende la calma irreale del metallo vibrante. Qui si mescolano i colori dell’impressionante orchestra con l’eco del vibrafono e delle crotales che vengono ripresi da quattro orchestrali percussionisti (anche loro favolosi), supportati in modo celestiale da tutti i colleghi. Meravigliose melodie volano nello spazio, formando un antagonismo alla furiosa energia delle parti esterne – e mostrano quasi per caso che Cerha, anche quale compositore di adagi, appartiene alla classe magistrale dei compositori, quindi ai veramente Grandi.

Grubinger comunque lo era sulle tre percussioni soliste. Il modo in cui raccoglie le enormi esigenze di questo concerto in una sensuale drammaturgia, carica la grandezza sinfonica gestualmente ed epicamente, così come infine celebra l’autorisoluzione dello spettrale scherzo finale, questo lo sa fare attualmente solo lui. E già che parliamo dei Grandi: come Riccardo Chailly asseconda dal pulpito l’orchestra del Gewandhaus, costruendo per i tamburi un fondamento assolutamente affidabile che comunque non ha solo una funzione di supporto, ma sviluppa a sua volta forza, bellezza e splendore, contribuendo in modo determinante al successo scrosciante di questa musica di grande forza e potenza, ma non certo facilmente comprensibile.

Il che vale anche per la seconda parte del concerto: anche la prima esecuzione della versione originale del “Diario dello sdegno” di Fabio Vacchi (classe 1949) non è un piatto facile. Lo Sdegno di Vacchi parte dall’11 settembre e dalle sue conseguenze. Ma presto la composizione prende un’altra direzione e si divide in più opere. Chailly convinse alla fine il compositore a realizzare comunque il suo disegno originale. E il risultato prende l’ascoltatore improvvisamente alla gola. E’ più una storia notturna di incubi che non un diario. Anche se ogni tanto, sotto la superficie ruvida della grande orchestra, virtuosamente trattata, compaiono pezzi familiari, qui una sepolta frase klezmer, là una timida triade degli ottoni. Ma in qualsiasi modo Vacchi li sovrappone e li incastona, una cosa è chiara: niente è più come era prima.

Nonostante la sua forza narrativa, Vacchi non ha affatto scritto musica programmatica. Non descrive alcun attentato, alcuna guerra. La sua impostazione metafisica è senz’altro confrontabile con quella di Gustav Mahler: del materiale molto differente viene montato in un grande insieme in modo che si aprano significati non esprimibili con la parola, ma che emozionalmente sono assolutamente percepibili. Anch’essa una grandissima opera, suonata in modo favoloso dall’orchestra del Gewandhaus sotto la direzione di Chailly che, visto il successo di questo programma, a prima vista ricalcitrante, forse punterà in futuro di nuovo un po’ di più sulla musica moderna

A proposito di Mahler: martedì inizia a Lipsia il festival internazionale in onore di Gustav Mahler. Vi si troverà l’elite delle orchestre di tutto il mondo. E anche in rapporto a questo il Grande Concerto di questa settimana è stato programmato in modo intelligente, non solo perché il palcoscenico è riempito in modo simile, ma anche perché Cerha e Vacchi non dimostrano solo in modo impressionante dove portano le strade intraprese per primo da Mahler, ma esigono anche tutto quanto l’orchestra deve a lui. Anche il Bolero di Ravel non è solo una musica orecchiabile e di moda, ma è molto adatta anche come studio collettivo per una determinazione della posizione in fatti di cultura d’orchestra e di capacità dei solisti. L‘attuale risultato, accolto con grande esultanza: molta luce, particolarmente chiara negli archi, generalmente in legno, spesso nelle trombe e un po’ di ombre, per esempio, negli strumenti a fiato a coulisse. E quando un’orchestra è in grado di espandere superfici così delicate come nella strumentazione della Barca sull’oceano di Ravel (dal ciclo per pianoforte “Miroir”) e ha un suono così caldo, può arrivare tutta la concorrenza da Londra, Vienna, Dresda, Amsterdam, New York, Zurigo….