Parola, vocalità, percezione, memoria di Fabio Vacchi

La nascita della musica occidentale è legata all’intonazione delle parole, dalle quali è dunque fin dalle origini inscindibile. E, in fondo, la stessa tradizione strumentale modella le proprie melodie sulle linee vocali che imita e assimila. C’è quindi un rapporto direi quasi simbiotico tra la letteratura e la musica, di cui il teatro si fa mediatore e collante. Negli anni della mia formazione artistica la musica mi è stata insegnata come qualcosa di essenzialmente astratto, frutto di calcoli matematici e combinatori, o di trasposizioni concettuali. Il che è in parte giusto, sicuramente necessario, ma non sufficiente. Molto spesso veniva, infatti, dimenticato – o volontariamente accantonato – l’aspetto “percettivo”. Uno dei maggiori musicologi viventi, Jean-Jacques Natties, pur essendo stato un esegeta dello strutturalismo, riferendosi in un suo recente saggio alla musica cosiddetta d’avanguardia, ha parlato di “fallimento percettivo”. E uno stile musicale che fallisce percettivamente presenta senza dubbio qualche lacuna.

Per me un passo avanti fu l’avvicinarmi, appena trentenne, al teatro musicale. Per la mia prima opera, allestita a Firenze, scelsi Girotondo di Schnitzler, affidando la stesura del libretto a Roberto Roversi, proprio perché quel testo aveva un progetto narrativo, presentava dei personaggi, con una psicologia che agiva “drammaturgicamente”. Neppure oggi è cosa ovvia, ma allora aveva addirittura un che di eversivo: musicare una storia di cui si capiva lo svolgersi, veniva considerato, nella migliore delle ipotesi, un’operazione di retroguardia.

Il ricorso alla tradizione del belcanto italiano suscitò sospetto, in quanto venne considerato un affronto ai dogmi spesso forzatamente sperimentali dell’epoca. A poco valse il fatto che io mi guardassi bene dal ricalcare modelli del passato – come cominciava ad avvenire per reazione e tuttora rischia di sembrare una via d’uscita dall’incomunicabilità della musica contemporanea e invece è solo una scorciatoia e un vicolo altrettanto cieco – ma metabolizzassi il grande patrimonio melodrammatico italiano, stilizzato e mediato da una rielaborazione stilistica che assorbiva le esperienze di un Novecento ormai in gran parte trascorso. Bastava introdurre un elemento non omologato alle correnti dominanti per essere lasciati a margine, definiti degli irregolari, degli eretici. Regnava una metafisica – una concezione quasi teologica – della dissonanza che ha, ancora oggi, isolate ma ancora potenti roccaforti.

La mia musica nasce invece da un’idea di cantabilità riconducibile a sonorità popolari e da intendersi in tutte le sue possibili declinazioni: dalla funzione recitante, inserita anche in contesti sinfonici, a un dipanarsi quasi fine a se stesso, nella sua peculiarità sonora, nel suo inglobare e fagocitare la parola. All’interno di questo range, mi piace cercare tutte le sfumature possibili, là dove la parola condiziona il suono e viceversa, con il modellarsi delle linee sul senso e sul significato del testo o, paradossalmente, dove la letteratura viene sollecitata, contraddetta, sfidata, coinvolta nella sua specificità semantica e poetica. Ho anche inserito una voce non impostata – quella di Moni Ovadia – in un mio brano per grande orchestra, Irini, Essalam Shalom.

Per fare un altro esempio, nell’opera realizzata a Bari insieme a Federico Tiezzi e Gae Aulenti, Lo stesso mare, su testo di Amos Oz, una parte fondamentale era affidata a tre voci narranti. La prima aveva un ruolo espositivo, teneva cioè i fili della narrazione, la seconda, femminile, offriva squarci lirici e poetici, la terza rappresentava in un certo senso lo stesso narratore che si cala nel proprio racconto. Ovviamente, le parti sinfoniche che interagivano con gli attori erano state pensate sia in relazione alle caratteristiche fisiologiche e psicologiche della voce umana, sia dal punto di vista dell’espressività e dell’emotività del testo. Goethe diceva che la buona musica non deve fermarsi alle orecchie, ma deve arrivare a risuonare interiormente. Vuol dire mettere in moto il nostro sistema analogico a tutti i livelli, operare sinestesie. Una musica può provocare sensazioni tattili, olfattive, visive e così via. Spesso si ha avuto – e si ha tuttora – una sorta di orrore del corpo e delle sue ragioni, quando invece la musica deve rivolgersi proprio al corpo.

Sulla scia di un certo malinteso neoplatonismo ripreso in chiave cattolica, noi viviamo una scissione tra l’idea e la materia, tra l’opera e la percezione dell’opera stessa. La manipolazione di un materiale espressivo, quale che sia, tende alla restituzione in termini metaforici di una visione del mondo: questo credo sia il compito dell’artista. Perciò l’arte ha sempre un aspetto maieutico, didattico. Allo stesso tempo, perché la comunicazione sia tale, vale a dire coinvolga un plurale e non sia un solipsismo, il linguaggio deve articolarsi su un terreno stilistico collettivo, che attivi e guidi ciò che la musica produce in noi.

Quando ci arriva – e deve arrivarci non solo in via cognitiva, ma anche sensoriale ed emotiva – la musica scatena le nostre emozioni, ci parla di noi, ci mette davanti al nostro rapporto con l’esterno. Ma esterno e interno appartengono a un tutto di cui facciamo parte. Studi recenti mostrano che il processo cognitivo è sorretto e condizionato dalla sfera affettiva: un bambino impara molto più facilmente quando è innamorato della maestra. E questo può capitare anche ascoltando un brano di musica che ci parli di noi stessi: mette in moto modalità percettive di cui non eravamo nemmeno a conoscenza. Perché ciò avvenga, deve rimanere all’interno di un terreno linguistico comune.

La musica, tutta la musica, si dispone su due direttrici essenziali: la continuità e la variazione. Articolando e armonizzando la continuità (permettendo di capire come il brano che si sta ascoltando è lo stesso cominciato tre minuti prima e dando un’identità al percorso musicale) e della variazione (che conferisce il senso alle ripetizioni nello svolgere del tempo) si ottiene narratività. Tale narratività, disprezzata negli scorsi decenni, dà conto del passare del tempo mentre si ascolta un brano. Perché devo ascoltare un brano per dieci minuti? Perché c’è un senso nell’ascoltarne dieci minuti. Anzi, quel brano modifica i dieci minuti di cronometro, facendoli diventare cento, oppure due.

La musica produce una percezione alterata della realtà, muove emozioni che altrimenti rimarrebbero ferme. L’evolversi di un materiale musicale dipende dalla sua organizzazione del tempo. I suonatori di barattoli a New York sanno intrattenere il pubblico per ore, con un trattamento del materiale espressivo che diventa, a suo modo, narrazione.

Tutto ciò conduce a riflettere su due termini spesso abusati e travisati: contemporaneità e tradizione. Prima del Novecento, la musica è sempre stata contemporanea. Dal Novecento, è nato il vero e proprio genere della musica contemporanea, e lì sono cominciati i problemi. Perché la musica che si scriveva prima era sempre attuale. Poi a un certo punto si è detto: questa è la musica contemporanea, dobbiamo abolire qualsiasi tipo di codice per fondare un nuovo linguaggio. Ma che cos’è un linguaggio, se non il tentativo di stabilire una comunicazione? Se aboliamo qualsiasi codice, il termine “linguaggio” diviene improprio. I miei insegnanti dicevano che ogni composizione deve fondare il proprio linguaggio musicale, ma questo è autismo!

Il linguaggio, infatti, è una stratificazione secolare basata su elementi storici e sociali, non può essere inventato sulla base di decisioni arbitrarie. Deve costruirsi nel tempo insieme al pubblico. Non si può proporre, ogni volta, un messaggio nuovo, con un codice arbitrario inventato dall’autore, per quanto geniale, sofisticato, concettuale, filosofico. D’altro canto, la musica cosiddetta colta non può rinunciare alla ricerca, al rinnovamento, alla sapienza e alla preziosità. Non può mettersi, insomma, in competizione con altri generi, sicuramente più efficaci sul piano rituale e aggregativo, se non rischiando di perdere, oltre alla propria identità, la sua ragione d’esistere.

Lo stesso può dirsi della tradizione. Il rapporto con la tradizione è vitale, necessario, fondamentale per guardare avanti. Schönberg faceva studiare i Quartetti di Mozart. Ed è di Verdi la famosa frase Torniamo all’antico: sarà un progresso! La tradizione va conosciuta nei minimi dettagli, partecipata, introiettata. Certo, senza portarci a ripetere il passato. Ma pensiamo a come si sono evoluti gli stili: sulla base, ancora una volta, di esigenze percettive. Le forme musicali sono “retorica” nel senso più nobile del termine: sono basate su principi stabiliti e insegnabili, ma anche su qualcosa che non può mai essere espresso fino in fondo. Per costruire il futuro bisogna essere consci della propria identità. Noi siamo memoria. Se tu mi chiedi chi sono, devo “ricordarmi” di chi sono. Il mio nome e il mio cognome, senza la mia storia, non vogliono dire niente. Se conosco la tradizione posso andare avanti e costruire, perché ho un’identità, altrimenti non posso che annaspare in strategie costruttive, anche seducenti, ma che non hanno un legame con la realtà percettiva e non toccano emozionalmente il corpo del mio ascoltatore o del mio spettatore. La bellezza è un valore da custodire, perché contiene in sé una forza costruttiva, perché è un presente in bilico tra passato e futuro, perché, mai come ora, forse, anche politicamente, ne abbiamo capito l’importanza.