E’ naturale, credo, che un compositore chiamato a riflettere sulla situazione della musica contemporanea cerchi di mediare tra la propria esperienza personale, che ha il valore di tutto ciò che realmente si conosce, e il pensiero generale – quell’insieme di idee, studi, canali organizzativi, intenti politici e culturali – con il quale ha dovuto o potuto confrontarsi.
Difficile sintetizzare il problema del rapporto, oggi, tra musica e regia, nell’ambito del teatro e del cinema. Sono stato interpellato per raccontare la mia esperienza personale, e così farò, cercando di trarne peraltro riflessioni di carattere più generale.
La nascita della musica occidentale è legata all’intonazione delle parole, dalle quali è dunque fin dalle origini inscindibile. E, in fondo, la stessa tradizione strumentale modella le proprie melodie sulle linee vocali che imita e assimila.
Anche per quanto riguarda la musicalità, così come per altre attitudini umane, esistono elementi innati – o quanto meno ereditati nel loro divenire e nella loro trasformazione – che possono essere più o meno sviluppati e direzionati.
Versione per grande orchestra commissionata da Claudio Abbado ed eseguita in prima esecuzione al Festival di Pasqua di Salisburgo, nel 1997. La voce calanco del dizionario dice: “Solco d’erosione stretto e profondo, limitato da costoloni a lame di coltello, generalmente privo di vegetazione”.
L’opera lirica, forma d’arte peculiarmente italiana che per secoli è stata il fiore all’occhiello del nostro Paese, attraversa da tempo un periodo critico, almeno secondo il parere generalizzato di addetti ai lavori e spettatori.
Goethe affermava che bella era quella musica che arrivava a “risuonare interiormente, anziché fermarsi alle orecchie”. Perché ciò avvenga sono necessarie alcune condizioni, che pertengono tanto alla sfera razionale-analitica, quanto a quella fisiologico-percettiva.